Talento e diversità. Un punto di incontro tra percorsi differenziati e riduzione delle disuguaglianze
Premessa
Attrarre e trattenere personale qualificato rappresentano senz’altro due delle continue sfide che le organizzazioni si trovano ad affrontare. Se da un lato la capacità attrattiva delle aziende deve necessariamente far leva anche sullo sviluppo di un’adeguata architettura di gestione delle risorse umane, differenziata e dedicata ai cosiddetti “talenti”, dall’altro appare sempre più indispensabile promuovere la piena inclusione di tutti i lavoratori.
Di fatto si afferma una tensione tra talent management, che promuove l’identificazione e lo sviluppo di pochi dipendenti selezionati e il diversity management, che invece intende minimizzare le diseguaglianze nelle opportunità di carriera: tali strumenti si configurano come leve strategiche interne, che coinvolgono dinamiche e principi contrapposti, dal cui bilanciamento può dipendere una gestione strategica e sostenibile del lavoro.
Definire il talento
Il concetto di talento comprende in sé diversi aspetti e ha assunto un ruolo sempre più centrale per il business delle aziende, acquistando una specifica connotazione a seconda del contesto organizzativo, della cultura manageriale, delle sfide con cui l’organizzazione è chiamata a confrontarsi.
In letteratura è possibile individuare numerose definizioni di talento, che fanno generalmente riferimento a due differenti prospettive, la cui efficacia dal punto di vista operativo dipende con buona approssimazione dalla cultura organizzativa e dalla mission delle singole aziende.
La prima associa il concetto di talento a specifiche caratteristiche personali degli individui, alla capacità di apprendere dall’esperienza, al commitment nei confronti del lavoro e dell’organizzazione, alla capacità di adattarsi al contesto lavorativo.
La seconda fa esplicitamente riferimento alle persone. Un approccio di tipo inclusivo identifica come talenti tutti i dipendenti di un’organizzazione che, attraverso l’espressione di propri specifici punti di forza, potrebbero apportare valore aggiunto ad essa. Al contrario, l’approccio di tipo esclusivo qualifica come talenti soltanto gli appartenenti ad un’élite, ovvero ad una cerchia ristretta di persone contraddistinta da livelli di performance e di potenziale superiori alla media.[1]
È bene ricordare che la definizione del talento passa anche attraverso l’individuazione di un sistema di competenze, ritenute cruciali per il futuro dell’organizzazione, che costituiscono il punto di riferimento per la valutazione del potenziale. Definire il concetto di talento appare dunque imprescindibile, poiché da ciò dipendono le possibilità di riconoscerlo all’interno delle organizzazioni e le modalità con cui esso può essere gestito o, al contrario, non gestito.
La gestione del talento tra vantaggi e rischi
Il talent management costituisce un’architettura integrata di attività che comprende azioni di recruiting, formazione e sviluppo, a vantaggio di persone cui viene riconosciuto un ruolo chiave all’interno delle organizzazioni: l’obiettivo è quello di gestire in modo strategico il flusso di talenti nelle organizzazioni, attraverso diversi strumenti quali, ad esempio: identificazione e sviluppo, engagement, distribuzione interna, retention, offboarding. Oggi rappresenta un fattore di successo per le aziende che vogliono mantenere la propria competitività e migliorare la propria immagine, poiché condiziona direttamente la capacità di attrarre e trattenere persone talentuose, massimizzando la reciproca utilità derivante dal rapporto di lavoro e incrementando il vantaggio competitivo delle organizzazioni, attraverso un’opportunità di sviluppo distribuita che può interessare l’intera realtà aziendale.
Individuare le persone talentuose significa anche, per esclusione, riconoscere i “nontalenti”: per questo è bene interrogarsi su quali siano le conseguenze derivanti dalle diverse modalità di gestione destinate a persone con differenti livelli di performance e potenziale.
Diverse sono le conseguenze derivanti dall’appartenenza a un ristretto gruppo di persone, riconosciuto per qualità della performance e potenziale. Partecipare a un programma di talent management significa in primo luogo rafforzare le proprie capacità manageriali, con la prospettiva di sviluppare la propria carriera in ruoli di responsabilità e di incidere tanto sullo sviluppo degli altri collaboratori quanto sull’intera organizzazione. Inoltre, appartenere ad un’élite di talenti comporta dei vantaggi in termini di status (generalmente si è riconosciuti come top performer e dunque come maggiormente influenti), oltre che la possibilità di essere coinvolti in progetti strategici e rilevanti per l’organizzazione.
L’appartenenza al cluster dei talenti implica, inoltre, una maggior capacità di raggiungere risultati positivi, in termini di impegno e tensione al risultato, unitamente ad un maggior livello di engagement e motivazione, per realizzare performance efficaci, supportare il conseguimento degli obiettivi strategici dell’azienda, migliorare le proprie competenze.[2] In sintesi, l’identificazione nel gruppo dei talenti potrebbe condurre ad una miglior qualità del lavoro, a ricoprire ruoli di responsabilità, oltre che a migliori condizioni economiche e contrattuali, incidendo positivamente sull’allineamento tra obiettivi organizzativi ed esigenze di sviluppo professionale della popolazione aziendale.
Tuttavia non sempre l’identificazione nel ristretto gruppo dei talenti comporta soltanto effetti di carattere positivo, poiché ai benefici si associano anche dei rischi: gli alti potenziali potrebbero infatti non sostenere il peso delle aspettative. Al fine di non deludere le attese ed evitare di sbagliare, potrebbero diventare restii ad assumersi rischi maggiori, allineandosi quanto più possibile agli standard aziendali e attenuando così le qualità che li contraddistinguono.[3] Ansia da prestazione e paura di non essere all’altezza del ruolo affidato potrebbero dunque ostacolare il processo di crescita della persona e il contributo che essa potrebbe apportare all’azienda. Altra situazione critica potrebbe determinarsi qualora alle positive valutazioni di performance e potenziale non facciano seguito coerenti percorsi di crescita professionale.
Appare dunque chiaro che individuare alcune persone come talenti non è un’azione neutra e può avere dei risvolti che si ripercuotono tanto sui talenti, quanto sulle persone escluse da questa categorizzazione, la cui gestione potrebbe divenire ancor più sfidante per l’organizzazione.
Qualificare alcuni come talenti può far percepire a tutti gli altri una condizione di inferiorità. L’esclusione potrebbe essere infatti considerata come la preclusione di alcune opportunità di carriera, incidendo negativamente sulla possibilità di esprimere la propria individualità a livello professionale. Un altro effetto collaterale che attiene all’esclusione dalla categoria dei talenti riguarda la reazione alle basse aspettative che i manager nutrono verso i “non talenti”: questi ultimi potrebbero semplicemente allineare la loro attività a ciò che l’azienda si aspetta da loro, restituendo una performance inferiore alla media o alle proprie possibilità.[4] Concreto, infine, appare il rischio di creare divisioni interne tra i due differenti gruppi.
Se dunque il processo di talent management sembrerebbe suddividere intenzionalmente la popolazione aziendale, riservando determinati processi di sviluppo soltanto a chi presenta particolari caratteristiche, in che modo è possibile favorire l’inclusione delle diversità dei lavoratori, a tutti i livelli organizzativi?
Talent management e diversity management: un punto di incontro
Il diversity management trae origine dalla necessità di gestire l’eterogeneità (prevalentemente in termini di età, genere e abilità) che caratterizza la realtà aziendale, con l’obiettivo di valorizzare le diversità presenti e il contributo che ciascun individuo può apportare all’organizzazione, sviluppando un vantaggio competitivo a favore di tutta l’azienda, a partire dalla riduzione delle disuguaglianze nelle opportunità di carriera.
Ad esempio, il gender gap rappresenta una delle questioni più rappresentative del diversity management. È noto come la marcata disparità di genere tra il numero di uomini e donne in ruoli apicali sia un elemento comune a molte organizzazioni. Il recruiting è sicuramente una delle leve utilizzate per riequilibrare questo rapporto, nel tentativo di favorire una maggior “diversità” dei nuovi assunti e con essa anche un maggior parità di genere della popolazione aziendale in entrata.
Tuttavia il vero problema non interessa soltanto il personale in ingresso, ma riguarda soprattutto l’eccessiva omogeneità, prevalentemente in termini di genere, che caratterizza la pipeline di talenti verso i livelli più alti delle organizzazioni. Si determina cioè una sproporzione che interessa coloro che possono beneficiare o meno dei progressi di carriera. Non è forse un caso se la stessa figura del Leader viene spesso associata a caratteristiche maschili. Dietro questi meccanismi vi sono sicuramente dei bias, presenti tanto in fase di selezione[5] quanto nei successivi momenti di valutazione. Riconoscere queste distorsioni costituisce la condizione per identificare l’eterogeneità di talenti che potrebbero ricoprire posizioni chiave, promuovendo così una maggior pluralità di prospettive e lo sviluppo di identità professionali coerenti con quelle individuali.
Valutare l’impatto di un programma di talent management significa dunque non soltanto adottare indicatori quantitativi che rilevino l’incidenza sul business, ma considerare anche l’impatto sul clima organizzativo e sul benessere individuale di tutte le persone coinvolte, direttamente o indirettamente. Per questo è importante interrogarsi sul modo in cui il programma di talent management viene comunicato e percepito da tutta la popolazione aziendale e in particolare dai talenti che vi partecipano, su come essi avvertono gli sviluppi di carriera e sulla qualità delle relazioni che si instaurano con i colleghi.
Promuovere un ambiente di lavoro realmente inclusivo significa prevedere strumenti di integrazione organizzativa, in grado di favorire occasioni di confronto e lavoro condivise, attraverso gruppi progettuali che siano in grado di far emergere le qualità del personale coinvolto, valorizzandone l’operato e ottenendo da essi un impegno proporzionale alle proprie capacità. Significa cioè gestire in modo trasparente e condiviso potenzialità, bisogni e aspettative di tutti i collaboratori, ovvero gettare le basi per realizzare un dialogo fondato su un rapporto di fiducia che interessi tutti i livelli organizzativi. Occorre considerare il talento non come un’eccezione, ma piuttosto come un’occasione di sviluppo sistemica, condivisa e partecipata, senza contraddizioni interne.
Mettere in rilievo le componenti che coinvolgono gestione del talento e della diversità costituisce il primo passo affinché le organizzazioni possano acquisire consapevolezza ed evolvere in modo sostenibile, ovvero coniugando competitività e rispetto delle identità dei singoli.
Articolo pubblicato sulla rivista AIF Learning News, Maggio 2021, anno XV – N. 5
Note
↑1 | Cfr. Gallardo-Gallardo E. et al. What is the meaning of “talent” in the world of work, in Human Resource Management Review 23 (2013), 290-330 |
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↑2 | D. Daubner-Siva et al. Dovetailing talent management and diversity management: the exclusion-inclusion paradox, in Journal of Organizational Effectiveness: People and Performance 4 (4), 2017, 315-331, p. 322 |
↑3 | Cfr. J. Petriglieri e G. Petriglieri, La maledizione del talento, Harward Businees Review, Maggio 2017 |
↑4 | S. Swailes, The ethics of talent management, in Business Ethics: A European Review 22 (1), 2013, 32-46, p. 37 |
↑5 | Cfr. B. Oc, et al., It’s a man’s world! the role of political ideology in the early stages of leader recruitment, in Organizational Behavior and Human Decision Processes, 162 (2021):24-41 |